Il Figlio dell'Altra - Nota Tecnica

Il figlio dell’altra di Lorraine Levy, regista ebrea residente a Parigi, nasce da un breve racconto di Noam Fitoussi.

Girato quasi interamente a Tel-Aviv, in quattro lingue, il film è stato presentato lo scorso dicembre al Torino Film Festival. E’ uscito nelle sale italiane il 14 marzo 2013.

La sceneggiatura è stata scritta da due ebrei e da una cattolica; la regista ha dichiarato di aver sentito la necessità di avere una sorta di voce di conforto anche dal mondo arabo, così ha contattato Khadra, il quale ha letto la sceneggiatura e ha dato anche dei suggerimenti.
Utilizzando un punto di vista intimo, privato, il film affronta la questione israelo-palestinese. Il conflitto fra i due popoli viene collocato sullo sfondo della storia, distanziato, astratto, quasi ne sia solo la cornice scenografica.
Cito immediatamente una frase della regista che dice: “il mio film non vuole essere una lezione di storia ma vuole aprire al sogno”.
Tante volte ci si aspetta da questi film che trattano questioni così importanti che dicano un po’ tutto.Non è il caso di questo film.
Lorraine Lévy recupera una storia già vista e sentita, quella dello scambio dei neonati; una storia che attinge alla verità perché molte sono le testimonianze di scambi di neonati che per via della guerra del ’91 e delle evacuazioni si sono ritrovati con genitori non biologici, non sapendo davvero di chi sono figli.

Nel film poi per scopi drammaturgici si è inserita l’aggravante di una famiglia israeliana e una palestinese.

Joseph Silberg è un ragazzo israeliano che, durante la visita per il servizio di leva nell’esercito israeliano, scopre di non essere il figlio biologico dei suoi genitori: appena nato, durante la Guerra del Golfo, per i bombardamenti su Haifa, città abitata da ebrei e arabi, è stato scambiato per errore con Yacine Al Bezaaz, palestinese dei territori occupati in Cisgiordania. La rivelazione getta lo scompiglio tra le due famiglie, che
provano a incontrarsi e accorciare le distanze culturali.
Il conflitto israelo-palestinese viene “stilizzato” attraverso la caratterizzazione dei due personaggi.

Nello stesso modo viene realizzata un’altra stilizzazione metaforica, quella che divide gli uomini
dalle donne: odio e risentimento sono confinati alla reazione dei padri, mentre le madri divengono il catalizzatore di tutte le energie positive e dei nobili sentimenti, incarnando un simbolo di speranza, pace e fraternità.
La scelta vincente della regista, a questo punto, è quella di raccontare abbastanza in fretta lo scambio, senza perdersi in tante ricostruzioni o giustificazioni, per concentrarsi prima sulle reazioni degli adulti e poi su quelle dei due ragazzi di fronte a questa scoperta.

La storia di due ragazzi costretti a rivedere il mondo entro il quale ruotano le loro esistenze diventa così il modo per riflettere (senza drammi ma con dolorosa partecipazione) su cosa vuol dire appartenere ad una famiglia, a un mondo, e (soprattutto) cosa vuol dire riuscire a guardare lo stesso mondo con occhi nuovi e diversi.
Il film è stato accolto bene sia dagli ebrei sia dagli arabi perché si sono sentiti entrambi rispettati; questo era esattamente ciò che desiderava la Levy.

Due scene in particolare:
Ë la scena quando cantano tutti insieme a tavola.
Si tratta di una canzone semplice che appartiene al folklore arabo tradizionale.
Le parole non sono state tradotte di proposito perché la regista ha voluto conservare le emozioni del momento e del personaggio e temeva che, traducendo il testo, ci si poteva attaccare al significato intellettuale della canzone, perdendo di vista l’emozione di quel momento. Il testo poi non è così fondamentale, parla semplicemente di una donna che torna a casa.

Ë la scena in cui si nomina apertamente il termine “apartheid”
La scena a cui si fa riferimento per l’apartheid è quella in cui i due padri si incontrano e non possono non parlare di politica. E’ stata una scena molto difficile da girare anche perché entrambi gli attori sono molto coinvolti nella questione palestinese. “la sera prima mentre ci preparavamo per la scena”, racconta la Levy, “abbiamo dovuto affrontare il problema di chi avrebbe avuto l’ultima parola, ed entrambi insistevano nel voler chiudere.
Alla fine ho girato la scena lasciando che parlassero uno sopra l’altro, in modo che nessuno dei due avesse l’ultima parola e in maniera da rispettare entrambe le identità”.

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