Perfetti sconosciuti

Un film di Paolo Genovesi. Italia 2016

Durata: 97 min.

Film  brillante  e  amaro,  ambientato  all’interno  di  una  casa  dove  sette  amici  di  lunga  data,  nel corso di una cena, decidono per gioco di condividere i contenuti dei propri cellulari. 

L'effetto è dirompente, tanto da scompaginare le relazioni fra loro e renderli  così dei ….perfetti sconosciuti.

Quegli smartphone sono ora le scatole nere delle loro vite. 

Ma come sarebbero andate le cose se non avessero fatto quel gioco perfido? 

Tra spregiudicatezza e rischio, consapevolezza e superamento del limite, forse una  via ancora c’è.

Trama

Quante  coppie  si  sfascerebbero  se  uno  dei  due  guardasse  nel  cellulare 

dell'altro? È questa la premessa narrativa dietro la storia di un gruppo di amici di 

lunga data che si incontrano per una cena destinata a trasformarsi in un gioc o al 

massacro. E la parola gioco è forse la più importante di tutte, perché è proprio 

l'utilizzo "ludico" dei nuovi "facilitatori di comunicazione"  -  chat, whatsapp, mail, 

sms,  selfie,  app,  t9,  skype,  social  -  a  svelarne  la  natura  più  pericolosa:  la 

superficialità con cui (quasi) tutti affidano i propri segreti a quella scatola nera 

che è il proprio smartphone (o tablet, o pc) credendosi moderni e pensando di 

non  andare  incontro  a  conseguenze,  o  peggio  ancora,  flirtando  con  quelle 

conseguenze per rendere tutto più eccitante. 

Scheda “My Movies”

I  "perfetti  sconosciuti"  di  Genovese  in  realtà  si  conoscono  da  una  vita,  si  reggono  il  gioco  a vicenda  e  fanno  fin  da  piccoli  il  gioco  della  verità,  ben  sapendo  che  di  divertente  in  certi esperimenti c'è ben poco. E  si ostinano a non capire che è la protezione dell'altro, anche da tutto questo, a riempire la vita di senso.

Paolo Genovese affronta di petto il modo in cui l'allargarsi dei cerchi nell'acqua di questi "giochi" finisca  per  rivelare  la  "frangibilità"  di  tutti:  e  la  scelta  stessa  di  questo  vocabolo  al  limite  del neologismo, assai legato alla delicatezza strutturale di strumenti così poco affidabili e per loro stessa natura caduchi come i nuovi media, indica la serietà con cui il team degli sceneggiatori ha lavorato su un argomento che definire spinoso è poco, visto che oggi riguarda (quasi) tutti. 

Per una volta il numero degli sceneggiatori (cinque in questo caso, fra cui lo stesso Genovese, senza contare l'intervento importante degli attori che si sono cuciti  addosso i rispettivi dialoghi) non  denota  caos  e  debolezza  strutturale,  ma  sforzo  corale  per  raccontare  una  storia  che  è intrinsecamente fatta di frammenti (verrebbe da dire di bit, byte e pixel), corsa ad aggiungere 

esempi sempre più calzanti tratti dal reale.

Il  copione  lavora  bene  sugli  incastri  e  sugli  snodi  narrativi  che  rimangono  fondamentalmente credibili,  instilla  verità  nei  dialoghi  (che  certamente  verranno  riecheggiati  sui  social  e  nelle conversazioni da salotto, perché questo fanno certe "conversazioni": l'eco), descrive tipi umani riconoscibili. Il cast, anch'esso corale, fa onore al testo, e ognuno aggiunge al proprio ruolo una 

parte di sé, un proprio timore reale. Perché questa società così liquida da tracimare di continuo, sommergendo ogni nostra certezza, fa paura a tutti, e tutti ne portiamo già le cicatrici, abbiamo già assunto la posizione del pugile che incassa e cerca di restare in piedi (o sopravvivere, come canta il motivo di apertura sopra i titoli di testa).

Il  tono  è  adeguato  alla  narrazione:  non  melodrammatico  (alla  L'ultimo  bacio),  non romanticamente  nostalgico  (alla  Il  nome  del  figlio),  non  farsesco,  non  cinico,  ma  comico  al punto giusto, con sfumature sarcastiche e iniezioni di dolore. Questa "cena delle beffe" attinge a molto cinema francese e americano, ma la declinazione dei rapporti fra i commensali è italiana, con  continui  riferimenti  a  un  presente  in  cui  il  lavoro  è  precario,  i  legami  fragili  e  i  sogni 

impossibili.  La  scrittura  è  crudele,  precisa,  disincantata,  e  ha  il  coraggio  di  lasciare  appese alcune linee narrative, senza la compulsione televisiva a chiudere ogni scena. C'è anche una coda alla Sliding Doors  che mostra come il "gioco" (prima che diventi al massacro) sia gestibile solo  con  l'ipocrisia  e  l'accettazione  di  certe  regole  non  scritte:  ed  è  questa  la  strada  che  più spesso scelgono gli esseri "frangibili".

Quello  che  ancora  manca,  a  ben  guardare,  è  quella  profondità  abissale,  quella  vertigine  di consapevolezza  regalata  agli  spettatori  senza  preavviso  dal  miglior  cinema  italiano,  su  tutti quello di  Ettore Scola  (non a caso anche qui c'è una terrazza). Ma questa non è colpa degli sceneggiatori  o  del  regista,  è  segno  dei  tempi,  giacchè  la  "frangibilità"  delle  identità  e  dei rapporti  consente  al  massimo  la  rivelazione  di  qualche  doppiofondo,  non  quella  sospensione sull'orlo dell'abisso che, come canta il bardo della nostra epoca inconsistente, "non è paura di cadere ma voglia di volare".

Tratto da “Mymovies.it”

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