Convinto che la guerra condotta in Vietnam dal suo Paese costituisca una sciagura per la democrazia, Daniel Ellsberg, economista e uomo del Pentagono, divulga nel 1971 una parte dei documenti di un rapporto segreto. 7000 pagine che dettagliano l'implicazione militare e politica degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam. Un'implicazione ostinata e contraria alla retorica ufficiale di quattro presidenti. È il 'New York Times' il primo a rivelare l''affaire', poi impedito a proseguire la pubblicazione da un'ingiunzione della corte suprema. Il 'Washington Post' (ri)mette mano ai documenti e rilancia grazie al coraggio del suo editore, Katharine Graham, e del suo direttore, Ben Bradlee. Prima donna al timone di un prestigioso giornale, Katharine decide di pubblicare il monumentale scandalo di stato con buona pace degli investitori (il giornale era allora in fase di ristrutturazione finanziaria) e a rischio della sua azienda, della prigione e della carriera dei suoi redattori. Fedeli al primo emendamento e all'intelligenza dei propri lettori, i giornalisti del 'Washington Post' svelano le manovre e le menzogne della classe politica, assestando il primo duro colpo all'amministrazione Nixon. Un presidente degli Stati Uniti che dipinge i giornalisti come bugiardi, minaccia la libertà di stampa, limita l'accesso dei media all'informazione, punteggia significativamente la sua carriera politica e personale di fallimenti d'immagine. No, Donald Trump non ha inventato niente, prima di lui c'è stato Richard Nixon. Girato d'urgenza per non perdere niente della sua risonanza, 'The Post' non racconta un'epoca passata ma una storia che si ripete. Per realizzarlo Steven Spielberg ha interrotto un progetto in corso ('The Kidnapping of Edgardo Mortara') e ha lavorato nelle medesime condizioni dei suoi protagonisti. L'energia è quella di un reportage di guerra ma la regia agisce negli 'interni' delle redazioni o di lussuose dimore, creando opposizioni, spazi chiusi, linee di fuga. Film indifferibile, traboccante di impeto e fervore, 'The Post' è prossimo a ''Lincoln''. Lo è nel fondo e nei meccanismi, lo è nello slittamento dalla potenza delle immagini a quella della parola, lo è nell'interessamento alla procedura, ai caratteri umani pieni di intelligenza strategica, alla forza dei sentimenti, all'eroismo del cuore, alla comunione di un gruppo di persone, sovente in un ufficio, qualche volta su campo a operare in maniera 'illegale' nonostante l'istituzione che incarnano. Se nel 1865 era necessario acquisire abbastanza voti per far passare il Tredicesimo Emendamento, nel 1971 è indispensabile mettere le mani sui fascicoli confidenziali della Difesa per denunciarli sulle pagine del giornale. Allo stesso modo per Spielberg è importante realizzare il suo film 'prontamente' per 'trattare' la perdita di controllo di un altro capo di stato e la condizione della donna. E il film aderisce all'impellenza del suo intrigo manifestando la sua urgenza (anche) nella forma e ribadendo in filigrana uno dei grandi temi della sua filmografia, la comunicazione. Quella che nasce dall'incontro tra un bambino e un alieno, tra un israeliano e un palestinese, quella che passa per lo 'storytelling' o gli aneddoti di Lincoln. 'The Post' riallaccia il tema e aggiunge la responsabilità. Narratore senza pari della nostra epoca, Spielberg ha affrontato la Shoah, lo schiavismo, la guerra, il terrorismo, il conflitto arabo-israeliano e adesso 'deve' dire della libertà di stampa e dell'oppressione patriarcale. Non si tratta solamente di una relazione tra i suoi personaggi ma tra l'artista e il suo pubblico. Se il ''Grande Gigante Buono'' aveva il dovere di divertire, 'The Post' ha la responsabilità di informare. Divertire e informare, la passione del cinema e il piacere delle storie, le due missioni che marcano il cinema di Steven Spielberg. A questo giro di rullo, la trasmissione dell'informazione passa per la macchina da scrivere, presente fin dal debutto affondato nella giungla vietnamita. Un soldato ha un fucile, l'altro (Daniel Ellsberg) la macchina da scrivere. Al di là dell'evidenza dell'opera (il Primo Emendamento e l'emergere di una donna in un mondo di uomini) è la maniera di caratterizzare le macchine da scrivere come dei fucili, le lettere incise come pallottole nel caricatore, i pacchi di giornali come bombe lanciate lungo le strade, il lavoro investigativo come una missione di spionaggio, a fare del film una lettera d'amore 'pugnace' al mestiere del giornalista. Attardandosi sui dettagli di un'epoca analogica, quella dei telefoni a disco e di quelli pubblici da cui i giornalisti chiamavano le loro fonti, delle grosse macchine tipografiche e del battito frenetico sui tasti, delle penne sul foglio e della posta pneumatica, Spielberg assedia la scena intorno a Meryl Streep. La performance dell'attrice, già esitante e vulnerabile, è assillata dalla presenza costante di uomini in campo, che esibiscono la volontà intenzionale di annullarla. Il regista ricompone addirittura un quadro di Norman Rockwell, in cui un fascio di uomini circonda una donna prendendo decisioni al suo posto. Quello che la storia vera offre di magnifico al racconto, non è soltanto la confluenza tra la lotta contro il governo e la storia di una donna che prende coscienza della sua forza, ma è soprattutto la convergenza nei due movimenti del medesimo problema: la censura della parola. La censura flagrante della 'stampa' e quella insidiosa, perché sistemica, delle 'donne'. La correlazione tra la voce ritrovata di una donna e la svolta che quella voce determina è la più bella lezione che la realtà potesse donare al film. Alla cronaca storica, Spielberg aggiunge un 'womansplaining' che apre gli occhi al protagonista (molto) maschile, il vecchio 'newsman' di Tom Hanks, mai così brusco e febbrile nel trasformare in atto i grandi valori, e cambia il mondo. Nella stagione (triste) dell'affaire Weinstein e della presidenza isterica di Trump, 'The Post' non si accontenta di confrontare le minacce di Trump con le manovre di Nixon, sempre filmato di spalle, incorniciato dalla finestra della Casa Bianca e incapace di trasmettere un'immagine di sé al pubblico. Alla maniera di ''Munich'', si congeda con un 'avvertimento'. Se il primo chiudeva sulle Torri del World Trade Center mettendo in rilievo il ciclo infinito della vendetta, il secondo conclude con un ghigno avviando lo scandalo Watergate. Perché nessuno è intoccabile. A perseverare, nell'idiozia arrogante e nelle dichiarazioni improvvide, prima o poi si cade. 

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