Un angolo felice della campagna inglese ospita Beecham House, casa di
riposo per musicisti e cantanti. Ogni anno, in occasione dell’anniversario della
nascita di Giuseppe Verdi, gli ospiti organizzano un gala e si esibiscono di
fronte ad un pubblico pagante per sostenere Beecham e scongiurarne lo
smantellamento. Ma ecco che la routine di Reggie, Wilf e Cissy viene
sconvolta dall’arrivo a pensione di Jean Horton, elemento mancante e artista
di punta del loro leggendario quartetto, nonché ex moglie di un Reggie
ancora ferito. Dustin Hoffman s’improvvisa regista animato da uno spirito
appassionato ma anche da una sana dose di modestia e ottiene un risultato
precisamente in linea, modesto con brio. Hoffman non ha un messaggio da
lanciare al mondo né una proposta di regia che faccia in alcun modo la
differenza, ma si limita ad assemblare un cast di grandi attori inglesi e a
lasciare che suonino le loro corde su una partitura nota ma rodata, di quelle
che si fanno ascoltare (e vedere) ogni volta anche se non è mai la prima né
l’ultima. La narrazione è esile e in alcuni punti a dir poco sbrigativa ma non
sono poche le battute buone e non è da poco il contributo dei (veri) cantanti
in scena. Adattando la pièce di Ronald Harwood (ispirata dal documentario 'Il
bacio di Tosca', girato anni fa nella Casa di Riposo per musicisti 'Giuseppe
Verdi' di Milano), ambientandola in un cornice da Gosford Park, musicandola
con le arie d’opera più belle, Hoffman dimostra soprattutto di aver saputo far
affidamento sui materiali appropriati, affinché la costruzione finale suoni
malinconica quanto basta, ma anche evanescente e in fondo un po’ infantile,
com’è lo spirito degli anziani nella convivialità. Bill Connelly è il più divertente
della partita, Maggie Smith la nota più alta: per quanto contenuta – o forse
proprio per questo - la sua performance si carica silenziosamente il peso di
un confronto con il passato che va superato o non darà tregua, così come un
errore d’amore, che può danneggiare una vita intera. O quasi. Appare invece
sprecato Michael Gambon, che, a parte indossare pittoreschi caftani da
regista in pantofole, è bloccato in un ruolo senza spessore e senza possibilità
di movimento. Tom Courtenay, infine, nei panni di Reginald, incarna la sottile
linea di confine su cui si posiziona il film stesso, tra l’aspirazione alla dignità e
il richiamo della passione, tra il Rigoletto e il rap. Pensato per un pubblico di
amanti della musica e dei cioccolatini allo cherry più che del cinema con la
maiuscola, Quartet vale comunque la visione della reunion di quattro attori
senza età.